Referendum costituzionale 2016: essere indecisi è paradossalmente normale

Referendum costituzionale 2016: essere indecisi è paradossalmente normale

Essere confusi e non riuscire a scegliere tra il SI e il NO nel referendum di conferma della riforma costituzionale del 4 dicembre in Italia è normale perché la differenza tra gli effetti delle due opzioni sul funzionamento dell’ordinamento della Repubblica nel medio e lungo periodo è minima. O così dice il paradosso di Fredkin.

Sul referendum costituzionale indetto per il 4 dicembre 2016 si sta discutendo molto in Italia, ed è un buon segno. Il referendum popolare è un importante strumento della democrazia e proprio per difenderne il ruolo andrebbe usato con parsimonia e con un mandato preciso. Uno dei requisiti per la democraticità di un referendum è che tutte le opzioni di voto abbiano la stessa legittimità democratica e dunque non ci sia una risposta giusta e una sbagliata. Purtroppo questo è esattamente quanto è successo in Irlanda con il referendum di ratifica del trattato di Lisbona. Di fronte al primo rigetto del trattato, le tecnostrutture europee hanno reagito compatte manifestando agli elettori irlandesi che quella era la risposta sbagliata. Tuttavia, generosamente, gli sarebbe stata data una seconda opportunità per votare meglio.

Non così in Italia, annodomini 2016. Entrambe le opzioni hanno piena dignità costituzionale. Certo, ci si può dividere in modo acceso e litigare. Tuttavia, nonostante la fiorita retorica di alcuni la democrazia non è in pericolo, non si sta vendendo il paese a oscuri potentati finanziari internazionali e certamente non ci stiamo preparando a diventare la nuova Danimarca del Mediterraneo.

Resta la questione di come votare, ammesso che si voglia farlo. Non pretendo di riassumere qui tutti i 47 articoli sottoposti a revisione costituzionale, così come non provo neanche a sintetizzare gli argomenti principali del dibattito in corso. Mi concentro invece su una questione di metodo.

Mentre ascoltavo una dottissima discussione sulle ragioni del SI e del NO tra due conoscenti assai meglio informati di me, la mia simpatia fluttuava ritmicamente da una parte all’altra, come i globi oculari di chi guarda una partita di tennis. Nel frattempo la risonanza ritmica deve aver liberato un grumo di ricordi dalla sue ragnatele nella memoria profonda. Era un concetto noto nelle scienze cognitive e citato in La società della mente di Marvin Minsky, lettura semi obbligatoria per gli studenti di informatica e affini circa 25 anni fa. Secondo il paradosso di Fredkin:

«Quanto più due alternative appaiono ugualmente attraenti, tanto più difficile può essere sceglierne una, indipendentemente dal fatto che, nella stessa misura, l’importanza della scelta non può che diminuire.» [1].

Quindi una scelta diventerebbe paradossalmente più difficile in misura inversa alla differenza di esito tra due opzioni alternative. Certo, per molte persone il referendum costituzionale è un falso dilemma perché le due alternative non sembrano affatto «parimenti attrattive» e dunque hanno in proposito delle certezze catalaniane [2]. Per loro la distanza tra le conseguenze del SI e del NO è così abissale da rendere la scelta quasi ovvia e istantanea, con bassissimi costi in quanto a durata e sforzo cognitivo.

Eppure Fredkin mi aveva messo una pulce nell’orecchio. Ne parlai con un amico informatico e convenimmo che forse la difficoltà nel decidere tra SI e NO nel referendum non era solo frutto di un nostro limite di conoscenze e «coscienza politica». Ma per poter capire se il paradosso di Fredkin è applicabile bisognerebbe fare un esperimento mentale e fare dei calcoli, qualitativi ma pur sempre calcoli. Vediamone i passi principali:

Prima di tutto si dovrebbero identificare le conseguenze verosimili delle due opzioni costituzionali, i loro effetti sul funzionamento dell’ordinamento della Repubblica visto che si tratta di una riforma costituzionale. Quindi, implicitamente, senza interessarsi degli effetti di breve o brevissimo periodo sulle fortune o disgrazie di questo e quel personaggio politico.

Una volta individuate le conseguenze, bisognerebbe mapparle in uno spazio metrico di valutazione che permetta di fare confronti. E quindi calcolare la distanza tra le conseguenze delle due opzioni referendarie. Se questa distanza risultasse in effetti minuscola ci sarebbe un indizio che forse siamo in presenza di un paradosso alla Fredkin.

Per fortuna mia forse di molti altri indecisi, questo lavoro di valutazione degli effetti delle due opzioni referendarie è stato già abbozzato, in modo lucido anche se inevitabilmente approssimato, in una recente comunicazione di Fabrizio Barca.

D’accordo, non è l’unico modo di impostare la valutazione, che è intrinsecamente un problema politico. Ma almeno l’approccio di Barca ha il merito di guardare agli effetti di medio e lungo periodo e offrire una piattaforma di criteri espliciti. L’altra grande attrattiva per me è che si presta ad una verifica dell’effetto Fredkin. Barca identifica cinque dimensioni nello spazio di valutazione su cui proiettare i principali effetti che l’insieme dei cambiamenti proposti dalla legge sottoposta a referendum confermativo verosimilmente produrranno sul funzionamento dell’ordinamento della Repubblica:

1. Efficienza, nel senso di tempestivo adattamento a un contesto volatile (Trascuro qualsiasi riferimento all’efficienza in termini di costi, dal momento che, pur significativi in assoluto, i costi di esercizio degli organi dell’Ordinamento sono statisticamente irrilevanti a fronte dei costi/benefici derivanti da un «cattivo/buon governo»).

2. Efficacia, nel senso di qualità/impatto delle decisioni sulla nostra qualità di vita.

3. Certezza, nel senso di stabilità del governo, delle leggi, della stessa Costituzione.

4. Partecipazione, nel senso di capacità di acquisire direttamente e utilizzare conoscenza e preferenze dei cittadini e dei lavoratori.

5. Garanzie, delle minoranze e in generale nel senso di auto-correzione sistemica di fronte a eventi/azioni imprevisti o estremi.

La valutazione di Barca, a cui rimando i lettori, trova effetti di lieve miglioramento nell’efficienza; lieve peggioramento nell’efficacia del Parlamento, in particolare per quanto riguarda la selezione avversa e la motivazione dei senatori; certezza e stabilità di governo resterebbero sostanzialmente invariate; ci sarebbe un leggero miglioramento nelle forme tradizionali di partecipazione dei cittadini e sostanziale mantenimento del livello di garanzie attuali.

Al di là degli aspetti particolari di ogni elemento della valutazione, che sono importanti assai, lo stesso Barca conclude che:

l’insieme della riforma né peggiora, né migliora la capacità dell’Ordinamento della Repubblica di attuare i principi della Costituzione stessa, ossia di «farci vivere al meglio».

Dunque sembra proprio che siamo in un caso di ipnotismo decisionale alla Fredkin: il costo della scelta tra il SI e il NO in termini di tempo, sforzo cognitivo, sovraccarico emotivo, iperboli retoriche, amicizie rotte, vigorosi massaggi al ventre popolare, ed altre calamità è altissimo perché inversamente proporzionale alla minuscola distanza tra gli effetti delle due opzioni sul funzionamento dell’ordinamento della Repubblica.

Una volta sciolto l’aspetto cognitivo paradossale del dilemma, che fare? Barca non si pronuncia nel per il SI ne per il NO, forse anche perché deve anche bilanciare la sua posizione all’interno del PD, e propende per un «astensionismo attivo».

Per quanto mi riguarda, questo esercizio ha chiarito che seppure gli effetti sono minimi e di segno contrastante – dando quindi atto a molte delle ragioni del NO, c’è comunque una prevalenza marginale di quelli positivi. Ma anche assumendo che il miglioramento della qualità istituzionale di dopodomani sia trascurabile, e dunque sarebbe ragionevole lasciare tutto invariato, un altro elemento da prendere in considerazione è il mantenimento del dinamismo riformista oggi. Di riforme istituzionali c’è bisogno, a meno che tutti i problemi del paese siano causati da funesti fattori fantasmatici, ma a volte le cattive riforme sono peggio dello status quo. E la verve riformista non è certo mancata in Italia in anni recenti, almeno in certi settori. L’introduzione di una deforme caricatura di  federalismo è stata una calamità. Gli effetti del famigerato Jobs Act sulla stabilizzazione dei rapporti di lavoro sono minuscoli una volta esauriti gli incentivi. Scuola e pubblica istruzione, sono stati letteralmente bombardati di riforme negli ultimi dieci o quindici anni con risultati dubbi. Vale la pena continuare? Ora che la pesante macina del mulino riformista è stata faticosamente avviata con grande dispendio di energie e tuttavia promette una farina solo marginalmente migliore della precedente, vale la pena fermarla, festeggiare insieme a Salvini e Grillo, e attendere la palingenesi pentastellata? No, meglio una focaccia di crusca oggi.

 

[1] Minsky, Marvin (1986). The Society of Mind. New York: Simon and Schuster. p. 52; traduzione italiana di Giuseppe Longo, Adelphi, 1989, p. 93.

«The more equally attractive two alternatives seem, the harder it can be to choose between them—no matter that, to the same degree, the choice can only matter less.»

[2] Da Massimo Catalano, il trombettista jazz che deliziò il pubblico televisivo al tempo dello spettacolo Quelli della notte condotto da Renzo Arbore con i suoi aforismi binari del tipo: è meglio essere ricchi e in buona salute piuttosto che poveri e malati.

 

[Revisione, 22 dicembre 2016: il testo originale è stato modificato per correggere la versione italiana del paradosso di Fredkin citando più esattamente la traduzione di G. Longo.]


Cover photo credit: tea +,  Deep Reframing, https://flic.kr/p/613avU
Found at the International Contemporary Art Fair’s website
(http://www.viennafair.at/en2007/presse/ausstellergalerien.html).

Described as “Projektraum Viktor Bucher, Wien MARKUS WILFLING, Ohne Titel, 2006, Stahl/Emaillack, 180 x 75 x 30 cm, Courtesy Projektraum Viktor Bucher, Wien”

Read more